racconti

Cosa vedi

Una gamba sull’altra, in un salotto che così, senza luce, pareva tirato fuori dagli anni 20.
Insofferente, tamburellava l’indice sul bracciolo della poltrona verde scuro, come un gatto nervoso batte la coda a terra.
Fogli scritti a metà, una sigaretta spezzata. Il caffè ancora nella moka.

La ragazzina arrivò maledettamente puntuale.
Letteratura e filosofia. La madre l’aveva praticamente implorata di salvarla dall’esame di riparazione.
Pago bene, aveva detto. Le dedichi solo qualche ora.
Come se in poche ore si potesse infilare il mondo in una testa.

Mise giù cauta la sua borsa con i libri.
Che diavolo di libri si portava? Forse avrebbe dovuto almeno darci un’occhiata.
Fece uno sforzo per concentrarsi su di lei, un gambero fritto rimasto nel piatto. Avevano lo stesso colore slavato, e sapore di unto.

Lei la guardava in attesa ma senza curiosità. Come si guarda l’angolo di strada da cui arriverà l’autobus.

Pensò di rifilargli qualche frase su Kant. Dovrebbe essere ancora questo, il programma di quinta. Chissà se a qualcosa di facile ci poteva arrivare da sola.

“Forza, ragazzina” disse ricrollando nella poltrona. “Dimmi cosa vedi”.
La ragazzina, che non fosse stato per i brufoli, aveva nei fianchi già aspirazioni da donna, si guardò attorno come una renna in Lapponia.
Forse non vede NIENTE.

“Avanti. Non c’è una risposta giusta. E comunque, qualsiasi cosa tu mi dica, ti riconsegnerò a tua madre non molto diversa”.

“Vedo una stanza”.
“Superficiale come i tuoi pensieri. Stupiscimi”.
“Vedo una stanza piccola e tutta in disordine”.

Lei si guardò intorno. Poteva calzare. Si alzò per versare il caffè, freddo, in una tazza.

“Fermati qui. Mica che poi a pensar troppo ti si blocca la crescita.”
“Che ho detto?”
“Una cazzata. Ma non è colpa tua”.

Si guardò i piedi nudi. Forse doveva mettere delle scarpe in certe situazioni?

“Dicevo, rilassati. Tanto quello che vedi, non esiste”.
Presa da un impeto di collaborazione si alzò dalla sedia e si volse torcendosi su quel corpicino.
“Beh ma è piccola e incasinata”.

La sua scontata ostinazione la fece sorridere.
“Perché oggi è una giornata di merda. E io e te siamo prigioniere qui. Ma la musica, ieri, la sentivi?”

La ragazzina abitava proprio sotto di lei; doveva averlo sentito, il grammofono che aveva riempito l’aria di musica.

Lei annuì.
“Ieri sera non c’erano mica, queste pareti. C’era il fuoco acceso e un odore buono di pane. Quei fogli che tu oggi chiami disordine mi danzavano intorno e il vino scioglieva pensieri che se ti dicessi, tua madre non ti ci farebbe più mettere piede. Qui.”

“Se li è immaginati quando ha visto quell’uomo alto scendere dalle scale, ‘sta mattina”.
Lei si voltò ridendo, con un rivolo di simpatia che ora la creaturina le ispirava.

“Allora ce l’hai un cervello. E occhi che vedono.”
Lei le sorrise in cambio.

“Sì. hai detto bene. Anche tua madre può creare la realtà”.
“E chissà quanta ne ha creata, ‘sta mattina…” si lanciò lei.

“Lascia il mondo di tua madre ben chiuso nella sua messainpiega. Ti assicuro che non vuoi conoscerlo.”

Il campanile scandì il tempo.

“Levati dalle scatole. Torna giovedì e solo se prima ti sei letta questo”.
Le mise in mano un libro polveroso ma con un buon profumo di carta gialla.
“Il mondo come volontà e rappresentazione” lesse lei.
“È di un tale che pare ci abbia capito qualcosa, del perché questa stanza è così tante cose che, alla fine, non esiste”.

“Devo fare un riassunto”?
“Per l’amor del cielo! E poi io dovrei pure leggermelo? Lascia perdere”.

La ragazzina aveva quasi un piede fuori dalla porta.
“I pensieri muoiono nel momento in cui prendono forma le parole” le tirò dietro.
“Puoi firmarlo “Schopenhauer” e metterci la foto di un culo. Non quello di tua madre, ti prego”.

La porta si chiuse.
L’aria sembrava più fluida, come quando ci danzano i pensieri.

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