C’era una volta una pecora.
Ma non è questo il punto.
Avrebbe potuto essere un’anatra o un bovaro del Bernese.
La questione stava nei pop-corn.
Ore e ore ogni giorno per toglierglieli di dosso, e a che pro?
Chiamali innocui.
Certo, che male può fare un chicco di mais soffiato.
Poggiato lì e inerme che nemmeno lo senti pesare.
Intanto deve andarti bene che una pecora si ricopra di pop-corn.
I progetti sulla sua lana? Andati.
Leggeri come neve, quasi poetici. E odiosi.
Ci sono e ci fai i conti.
Provi a districarli e si sbriciolano.
Dispetti ripieni di ostinazione. Disgustosi.
Una sera gliene ho tolti un sacco.
Mi sono seduta accanto a lei e, uno ad uno, li ho sfilati.
Lei mi guardava ferma.
Un po’ stupita, un po’ riconoscente, un po’ niente.
Di quel niente di cui sono pieni gli occhi di tutte le pecore.
Ma ogni tanto era un sibilo. Un soffio lungo che non capivi se veniva da dentro alla pecora o da fuori.
E ne trovavi uno in più sulla testa, tra le orecchie. Proprio lì, sotto al collo, dove avevo armeggiato un secondo prima.
Ho lasciato perdere.
Ho pensato che adesso la lascio così e vedo se, a un certo punto, i pop-corn si fermano.
Spero non esploda la pecora.
Me la terrei anche inutile, una pecora di pop-corn.