Era una primavera di sole e luce, quella in cui morimmo tutti.
Ci chiusero nelle case, per evitare il contagio.
All’inizio fummo tutti coraggiosi. Ascoltavamo le notizie in TV, ci scambiavamo opinioni senza fondamento sui social, ci davamo appuntamento alla sera, sui tetti, per cantare la nostra speranza e deridere la paura.
Ma la paura vera venne quando fummo soli: andata via la corrente non ci furono più notizie da condividere, morti da contare, musica per tenere lontani i demoni.
L’unica cosa che potevamo sentire era il silenzio.
Era così grande, bello e terrificante.
Fu una primavera di rondini e ambulanze.
E quelle sirene, come lunghe strisce di verità, tagliavano a fette l’aria fresca.
Quando i fiori bianchi dei ciliegi cominciarono ad accendersi sui rami, si spensero le sirene.
Il virus ci uccise velocemente, ma non abbastanza perché non ci accorgessimo di cosa stesse succedendo.
Ci accasciammo ad uno ad uno. Prima i vecchi, poi tutti gli altri.
Provammo a ribellarci, ci affannammo come formiche che difendono il loro cumulo di terra, per salvare il loro piccolo mondo e le loro piccole vite.
I primi di noi se ne andarono nei letti d’ospedale. Furono seppelliti senza funerali, per tentare di contenere il contagio.
Quando la pandemia accelerò, le persone morirono nelle loro case. Qualcuno sui marciapiedi, lungo le strade. I più fortunati, sulla panchina di un parco.
La terra gettò verso l’alto i suoi germogli.
Gli storni fischiavano sugli alberi, forse non si accorsero della differenza.
Ad alcuni di noi sembrò irrispettosa, tutta questa bellezza. La distante tranquillità del mondo.
Comunque nessuno potè urlarlo in maiuscolo da nessuna parte.
Qualcuno scrisse un biglietto.
Un’imprecazione. Un addio.