Sapeva di carta, umidità e sole; come fosse possibile, lui neanche se lo chiedeva.
Son quelle cose che, per un gatto, non sono importanti.
Quel che contava era riconoscere quell’odore. E sì, era ben chiaro sopra alla scia del pane e biscotti della pasticceria, sopra lo staccafisso ed il baccalà, sopra l’acidulo del vino del ristorante con i tavolini a bordo del canale, sopra il marcio della laguna.
Perché quell’angolo di ombra e il soffice accomodarsi della carta sotto la schiena era il solo luogo sicuro e famigliare che si concedesse. Pochi minuti di udito spento e respiro lento. E tanto bastava.
A far di quello un rifugio non era il fatto che fosse irraggiungibile. Al contrario, gli scatti dei turisti si sprecavano: estratti di tempo da esibire che gli scivolavano sul pelo impolverato come acqua sui sassi del fiume.
Era la costanza di trovarsi li, immutato e ingenuamente immutabile, che rendeva – quell’angolo – casa.
Il ritorno, da qualsiasi dove. In qualsiasi come.
Lì. Sicuro. Sincero. In un sempre di gatto: piccolo, tondo e finito.