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Decluttering

Decluttering

Sapeva di metallo e abiti usati, dopo una sera al chiuso di hamburgher e birra.
Forse lei, la stanza. Dentro il suo cervello?
Aveva aperto la finestra ed erano entrati gelo e rumore. Gelo di mezza mattina di febbraio.
A metà di tutto, arrivati su niente.
Rumore di freni. Un motorino che passa dinoccolato e arrogante e se ne va nella sua scia.

Appuntamento: via Ferraris alle 10 e mezza.
Erano le 10 e 20 e non si vedeva nessuno, neanche a tirare testa e collo fuori dalla finestra.
Aveva disposto un po’ di oggetti lungo le pareti del soggiorno. Oggi era soggiorno, di solito ci mangiava e ci dormiva.
Aveva iniziato a mettere in fila le cose di cui disfarsi: abiti, pentole, qualche enciclopedia (si forse un paio di libri mancavano), un vecchio lume. Quello no, lo aveva spostato.
Dopo dieci minuti che stava mettendo in fila, aveva inziato a romperle, le file. E a far tornare nel suo “mio” quegli oggetti.

Metti che servano.
Mentre guardava gli abiti sulle grucce, accatastati sulla sedia, mani poggiate sui fianchi, il primo toc toc.
Sguardo alla porta. Un battito perso. È sempre l’inizio.
Spinge il primo passo, che tanto poi gli altri vengono da sè.
La porta si apre. Sorriso di circostanza, un po’ tirato per la verità. E via di can can.

Si era aspettata un po’ più gente, invece si era fatto vivo solo qualche amico con relativa fidanzata più o meno sconosciuta. E le vecchie amiche di sempre. Che poi loro l’avevano preso come l’aperitivo del giovedì, solo a un orario diverso.
E vabbè, pensava di essere più interessante, dall’esterno.
Alla fine l’importante era che si fossero portati via qualcosa. Mica tanto, mica tutto. Però era come se avessero fatto posto.

Verso le due, quando la luce stava iniziando a cambiare colore, era venuta la signora del terzo piano. Che cerca signora? Aveva chiesto dopo 15 minuti buoni di rovistamento.
È che non lo so cosa c’è qui. Mi sembra un sacco di schifezze.
Aveva alzato un sopracciglio. Che forse le garberebbe di più questo? Sollevando la manica del maglione verde fin sul gomito.
La signora era parsa interessata. Anzi aveva proprio torto il collo e fermato le manine arraffose nella cesta dei vestiti. Si era alzata piano avanzando nella sua direzione e lei non aveva abbassato il braccio. E così, ziip. Se l’era preso.

Grazie eh! aveva tintinnato sul pianerottolo soddisfatta e frettolosa, forse per paura di dover restituire il braccio.
Che pare sempre strano prendere una cosa senza pagarla, se non sei abituato.
In meno di due ore la signora del terzo piano doveva aver parlato con mezzo quartiere perché era un continuo bussare e scampanellare e staccar pezzi di qui e di là. Questi si, che sembravano interessanti.


Ci fu quello che si portò via le orecchie, uno solo per la verità. E quella delle ginocchia. Solo le ginocchia. Le avevano dovute separare dalle gambe che erano rimaste li, sulla sedia vicino ai vestiti. Poco però, perché erano venuti due fidanzati e se le erano portate via soddisfatti, una per ognuno.
Aveva detto no solo al ragazzino che voleva la testa. Metti che poi ci guardava dentro.
Fammi la cortesia, appoggiala li, vicino alla finestra.

Si sentiva leggera.
Il motorino non c’era più (chissà se lo sentiva quello dell’orecchio), ma il freddo sulle guance era rimasto. Ed era essenziale.
L’occhio ruota verso il termosifone. Vede la goccia ma non la sente.

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