Si preparavano per settimane, in Paese, per quel pomeriggio di fine agosto.
Così che, nelle loro teste e nelle loro mani, sembrava durasse una settimana, invece che poche ore.
E in effetti durava anche di più, se ci allungavi vicino le parole spese prima e dopo, le foto di ogni anno che si mischiavano a quelle dell’anno prima e ne facevano una catenella senza fine e data.
Venivano anche dei turisti, a vederlo.
E sinceramente ci capivano poco e venivano ignorati, se non per dar loro ospitalità nelle stanze a piano terra lasciate libere dai figli andati nel continente, e per quella valanga di orecchiette che piombava loro addosso ad ogni calar del sole.
Così gli stranieri, un po’ prima dell’ora stabilita, lasciavano i costumi umidi sui copriletti fiorati dei letti di radica e camminavano un po’ confusi per le strade acciottolate e ripide del Paese.
Dove ci mettiamo? Nessuno sapeva rispondere.
Addossati al muro asciugato dal sole, prima o poi li vedevano arrivare: una macchia di colore. Rosso, si sarebbe detto, ma poi da vicino aveva mille delle sfumature del rosso.
Tutti sudati e urlanti, che non capivi se erano felici o incazzati.
Le donne ai lati, a gridare e saltare che nemmeno davanti all’invasore avevano fatto così.
Gli uomini tronfi e orgogliosi di una forza che, qualcuno, avrebbe pagato nei giorni successivi con due scatole di Buscopan.
Eppure su e giù. Sempre più in alto lo spingevano, nelle sue quattro zampe fragili e la bardatura ad uncinetto colorato intorno al muso.
Vai ad acchiapparli, i suoi pensieri. Felice non era.
Ma forse non doveva esserlo.
Un asinello che era più o meno sempre quello, e infatti passava il resto dell’anno a maledire di essere asino nato a Moncalvino.
Quando lo slancio mascolino toccava l’apice, incitato dalle prefiche infoiate, il ciuchino volava appena al di sopra delle teste e lanciava un breve raglio.
Un sacramento. Nella migliore delle accezioni per la folla in festa, nella peggiore per la lingua degli asini.
I turisti non sapevano bene se essere divertiti o basiti di fronte a quella esibizione asinina in cui, il protagonista, era a metà tra un santo e un martire.
Ma nessuno osava mostrarsi meno che impressionato.
Alla fine della strada, dopo una mezz’ora buona di salti e colpi di grancassa, lo mettevano finalmente giù.
E allora urlavano ancora più forte girandogli tutti intorno mentre un bambino di poco più di 10 anni, tronfio come i portatori d’asino, gli depositava una corona d’oro, del peso approssimativo di 42 chili, sulla testa.
L’asino se ne stava fermo, con la corona in testa e un orecchio un po’ schiacciato dal peso della regalità.
Fiumi di vino rosso e acidulo riempivano bicchieri sbeccati e si mischiavano al sudore dei menti, delle barbe, dei colletti di pizzo.
I turisti, un po’ timidamente, sedevano sulle sedie di paglia delle cucine, tirate fuori in strada per l’occasione, e tornavano a farsi riempire di orecchiette.