racconti

Autobus

Autobus. Di Francesca Bruno

Per 37 anni lo stesso viaggio. Lei 82 a gennaio.
Non ci pensava neanche più, Annuska, prendendo il caffè nella cucina economica lunga e stretta, con le piastrelle un po’ sbeccate e l’unica finestra rettangolare affacciata sui palazzi di fronte.
Però usciva alle sette e quarantatre in punto, con quel passo suo, tutto dondolante da destra a sinistra e viceversa come una barchetta sul Danubio, con lo stesso sacchetto di plastica a penzoloni sui gambaletti.
Alla pensilina l’erba piccola di marzo iniziava a bucare il marciapiede.

Quando saliva sul 46bis, Andràs la accoglieva alla porta automatica. Più dondolante di lei.
Ogni volta le tendeva la mano ossuta con le dita lunghe da pianista, e ogni volta lei gliela scansava con una smorfia, strofinando le gengive nel suo dissenso inquieto.

Non c’era sempre il sole, certo. Anzi per lo più il cielo era grigio e gocciolava pioggia fredda. Allora, oltre al sacchetto, Annuska portava un ombrello al braccio, che non apriva.
E il berretto rosso le si copriva di brina.

L’autobus ripartiva, e con lui una fitta conversazione fino al capolinea: il camposanto.
Il martedi era sempre invettiva contro il gioverno, per quel programma alla TV che facevano la sera prima e che lei beveva come la pastina col brodo di dado che teneva sulle gambe.
Il giovedì andava meglio, se il panettiere le aveva messo via il pane del giorno prima.
Il sabato poteva addirittura scivolarle tra le gengive un sorriso, per il balletto in programma alle otto sulla rete nazionale.
Faceva tutto lei: lui un po’ annuiva e un po’sorrideva.

La domenica no, il camposanto era chiuso.
Andràs non sapeva che faccia o che umore avesse Annuska, la domenica.
Ma poi tornava lunedì. Le sette e quarantatre, lo scrocchiare del sacchetto di plastica, l’odore della lana umida. Il mondo a un nuovo giro. Che poi era lo stesso, quello del 46bis.

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